McDonald’s e Cgil: quando a farne i conti è la brand reputation

 

Quanti di voi conoscono il marchio McDonald’s? Tutti.

Quanti di quelli che lo conosco ne hanno una buona opinione? Probabilmente pochi.

Queste risposte, per quanto possano sembrare scontate, le conoscono molto bene anche negli uffici marketing e comunicazione della catena di fast food. Non a caso, infatti, la nuova campagna istituzionale, on air in questi giorni sulle principali reti televise italiane, sembra creata ad hoc per nobilitare, non tanto l’immagine di panini e patatine, quanto il ruolo che un’azienda da 16.000 dipendenti (in Italia) svolge nell’economia di un Paese.

“Pagano puntualmente tutti i mesi”, “si può diventare direttore di ristorante già a 27 anni”, “il 90% dei dipendenti è a tempo indeterminato”. Sono solo alcune delle dichiarazioni che si possono sentire durante lo spot; negli annunci pubblicitari cartacei, invece, viene addirittura citato l’articolo 1 della costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. 3000 nuovi posti li mettiamo noi”.

Il vespaio di polemiche che questi 30 secondi, diretti dal regista Gabriele Salvatores, sono riusciti a generare all’interno dell’opinione pubblica è cosa ormai nota.

Che il tentativo di migliorare la propria brand reputation non si sia rivelata in realtà un boomerang che potrebbe generare un risultato molto differente da quello auspicato? Probabile

Per una corretta analisi del fenomeno, però, bisogna prendere in considerazione una serie di fatti.

La multinazionalle americana non è nuova a questo genere di incidenti di percorso. Non solo sul versante della più generica brand reputation ma anche su quello della web reputation.

Vi ricordate la vicenda McStories?

Facciamo un piccolo riassunto: il colosso statunitense del fast food aveva deciso di utilizzare il proprio canale Twitter (@McDonalds) per coinvolgere gli utenti e incoraggiarli a raccontare sul social network le proprie esperienze alle prese con il mondo McDonald’s.

Per questo motivo il 18 Gennaio 2012 ha creato e condiviso su Twitter  l’hashtag “#McDStories“, chiedendo ai quasi 300.000 follower di utilizzarlo per condividere le belle storie quotidiane legate alla marca.

La rete, però, ha sommerso di commenti e tweet negativi l’azienda criticandola sul cibo spazzatura, il trattamento dei dipendenti, il servizio offerto, l’igiene. I responsabili dell’iniziativa sono stati costretti, pertanto, a sospendere la campagna dopo pochissimo tempo, commentando che l’operazione non aveva ottenuto gli effetti sperati.

Il tentativo di sfruttare le potenzialità dei social media, quindi, si era trasformato in un epic fail.

Nel caso della campagna pubblicitaria di McDonald’s Italia, on air in questi giorni, le dure proteste sono arrivate, invece, da parte della Cgil.

Sul banco degli imputati la retorica, il sensazionalismo e la strumentalizzazione che, secondo il sindacato, caratterizzerebbe la comunicazione messa in piedi dall’azienda. Ci tiene a ricordare, infatti, la CGIL che tra i lavoratori di McDonald’s c’è un alto tasso di precarietà: “L’80% dei lavoratori, non certo per scelta, ha un contratto a tempo parziale di poche ore settimanali, con il sistematico obbligo di prestare servizio in orario notturno, domenicale e festivo”.

Inoltre sarebbe colpevole di aver strumentalizzato la nostra Costituzione utilizzandola per uno slogan pubblicitario.

La reazione dell’amministratore delegato di McDonald’s Italia Roberto Masi non si è fatta attendere: “La Cgil è oramai incapace di rappresentare i lavoratori e i giovani, è capace solo di fare polemiche pretestuose”. “Il fatto è che abbiamo già assunto 200 persone in appena venti giorni nei nuovi punti vendita. In questi tempi di crisi stiamo dando speranza a un paese”. “Circa il 70% dei dipendenti ha un contratto part-time perché siamo costretti da sindacati come la Cgil perché rifiuta qualunque tipo di contratto spalmato su più ore, in base anche ai nostri picchi lavorativi del pranzo e della cena. Così, per avere flessibilità organizzativa siamo costretti a ricorrere a forme contrattuali a tempo parziale”.

Sicuramente più famoso, invece, il commento della ministro Fornero: “meglio un contratto a termine che disoccupati”.

Chi ha ragione e chi ha torto?

L’azzardo commesso dalla multinazionale è stato quello di posizionarsi “politicamente” su un tema, soprattutto oggi, particolarmente delicato e che, come si è appunto dimostrato, può rappresentare un campo minato.

La figura del lavoratore nei fast food, o crew per definirla con lo stesso linguaggio dello spot, così come quella del lavoratore nei call center, è da sempre sotto lo sguardo vigile delle associazioni sindacali vista la sua storica caratterizzazione negativa in termini di precarietà e mobilità del lavoro.

Ogni volta, quindi, che viene risollevato l’argomento è facile ricevere critiche da queste stesse organizzazioni.

Bisogna avere la franchezza di ammettere, inoltre, che in molti di noi c’è una sorta di ostilità innata, a prescindere, verso il brand McDonald’s.

Per molti rappresenta più di chiunque altro l’emblema della globalizzazione nell’accezione più negativa del termine, colpevole di aver infranto due mostri sacri della tradizione italiana: il cibo  e il rito del mangiare a tavola, con calma, in famiglia.

Quando si ha l’opportunità e l’occasione di criticare l’azienda, pertanto, non si perde tempo nel farlo, anche se questo significa spesso cadere nei soliti cliché e luoghi comuni, figli di un’epoca che ormai non ha più senso riesumare.

Il voler piegare temi socialmente sensibili a scopi promozionali può essere discutibile e va fatto sicuramente con estrema attenzione. E’ anche vero, però, che McDonald’s, nel bene o nel male, ha contribuito profondamente a modificare il nostro stile di vita e la nostra società e più volte è intervenuta per dire la sua su tematiche delicate; basti ricordare lo spot anti omofobia trasmesso alcuni anni fa in Francia.

Quale conclusione si può trarre, quindi, da questa vicenda? Che è impossibile stabilire chi abbia ragione e chi abbia torto.

La figura del dipendente McDonald’s non rappresenta soltanto semplicemente una qualsiasi figura professionale, ma simboleggia la profonda divergenza tra chi vede in lui possibilità e stabilità contrattuale all’insegna della meritocrazia e chi vede in lui nientemeno che la sintesi perfetta di un lavoro aberrante non tanto diverso da una catena di montaggio chapliniana.

Il rischio è che ognuno rimanga barricato dietro le proprie posizioni ideologiche e a farne i conti siano solo i lavoratori e l’azienda stessa.

 

 

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